“I musei, come i manicomi e le carceri, hanno reparti e celle,
in altre parole, stanze neutrali chiamate “gallerie”.
Un’opera d’arte quando collocata in una galleria perde la sua carica
e diventa un oggetto portatile o una superficie svincolata dal mondo esterno” (Robert Smithson)
È la rivista Art Forum che riporta queste parole pronunciate nel 1972 da Robert Smithson. Smithson, autore dell’iconica Spiral Jetty, la spirale sulla superficie del Salt Lake nello Utah costruita grazie all’accumulo di 60 mila tonnellate di terreno, realizza un monumento primitivo che diventa simbolo di una nuova modernità artistica: la Land Art.
Mai come nel periodo storico in cui ci troviamo, durante questo “ritiro”, si è avvertita la necessità di un dialogo con le arti: l’opera come rifugio, come evasione e come unica via di scampo dalla quotidianità. Nonostante l’idea dell’arte come portatrice di benessere si regga su evidenze scientifiche, questa connessione ci è stata negata, ma solo nella sua forma convenzionale, ovvero nella fruizione canonica dell’opera d’arte in un museo o in una galleria. Ci si è mossi verso soluzioni alternative: da una parte verso una sempre maggiore digitalizzazione delle collezioni e delle fiere; dall’altra verso il moltiplicarsi di esposizioni e musei all’aperto.
La relazione tra ambiente naturale e opera d’arte viene riscoperta e reinterpretata in questi mesi così che l’opera possa essere reinserita e beneficiata dalla società. Il binomio arte-natura non è una peculiarità di questo tempo, bensì affonda le sue radici negli anni Sessanta; proprio in quegli anni densi di rivoluzioni sociali e culturali, in America, nasce la Land Art.
Gli artisti, in opposizione alla crescente mercificazione dell’arte, avvertono l’esigenza di evadere dai confini del museo e della metropoli e approdano in spazi incontaminati. Laghi, praterie e deserti diventano la nuova base di lavoro: i paesaggi vengono rimodellati e gli elementi naturali sono i veri materiali costitutivi dell’opera. Il risultato è un’opera d’arte effimera, destinata ad essere riassorbita dal contesto naturale e a subire il degrado del tempo che riporta quel luogo al suo stato originario.
“Una divisione netta tra umano e natura è una visione forzata dalla realtà” diceva Giuseppe Penone, artista animatore del movimento dell’Arte Povera, che considera la natura, la cultura e l’essere umano entità connesse inseparabili. Nonostante Penone non rientri totalmente nel fenomeno di Land Art, in quanto espressione artistica anglosassone, l’interazione tra uomo e natura è il fondamento della sua arte. La realtà modificata in questa direzione, attraverso l’impressione della propria traccia, induce ad una maggiore consapevolezza dell’essere uomo all’interno dell’universo: è un modo per farne parte in maniera indivisibile.
E Penone, a ventun anni, lascia la propria impronta attraverso una serie di azioni artistiche nella sua terra natia, nei boschi delle Alpi Marittime. L’omonima serie di fotografie, Alpi Marittime, immortala operazioni come Continuerà a crescere tranne in quel punto, in cui l’artista inserisce un calco bronzeo della propria mano sugli alberi, a rappresentare la capacità umana di interporsi nella crescita degli elementi naturali, ma senza essere in grado di arrestarla, eccezion fatta per il punto in cui l’artista ha introdotto la sagoma in metallo. Il calco in bronzo, con le impronte digitali di Penone, è simbolo della sua presenza costante accanto all’albero: la sua mano accompagna la crescita e l’intero ciclo vitale dell’elemento naturale, rimanendo a fianco della sua anima.
Se la poetica di Giuseppe Penone si basa sulla presenza continua dell’artista nel contesto naturale, al contrario, Michael Heizer riflette sul tema del vuoto. La sua prima operazione monumentale è Double Negative: nel deserto del Nevada, alla fine degli anni Sessanta, realizza due pareti colossali divise da un enorme vuoto. L’artista riesce a esprimere la monumentalità attraverso il negativo, attraverso l’assenza.
Gli anni in cui Heizer sposta più di 240 mila tonnellate di rocce nel deserto sono gli anni dominati dalla paura di un’ipotetica Terza Guerra Mondiale, sono anni in cui i deserti sono luogo di esperimenti di armamenti nucleari e, nell’ottica dell’artista, Double Negative rappresenta il negativo di qualcosa che la guerra ha distrutto; probabilmente dell’Empire State Building, che è destinato a perdere la sua consistenza fisica.
Questa grande “trincea”, questo “solco”, taglia gli altipiani desertici proprio come i tagli di Gordon Matta-Clark conferiscono un ultimo istante di vita agli edifici del South Bronx. Matta-Clark, artista eclettico e architetto, fonda e professa l’Anarchitettura: non crea nulla di nuovo, ma insegue le costruzioni dimenticate dalla popolazione e in procinto di essere distrutte, che diventano materia prima per le sue performance. Buchi, varchi, tagli sulle pareti e sui tetti, i cosiddetti “building cuts”, consentono così che l’energia possa circolare liberamente tra interno ed esterno, mettendo in discussione la funzione originaria di quegli spazi e conferendo dignità artistica all’edificio. Con Conical Intersect due edifici destinati alla demolizione, per far posto al nascente Centre Pompidou, diventano la tela dell’artista, su cui compie tagli spiraliformi, gesti pittorico-sociali, rivelatori di nuovi punti di vista, di fronte ad una platea involontaria di pedoni.
Se da una parte queste operazioni artistiche possono veicolare un messaggio ecologista e sensibilizzare l’uomo verso la tutela della natura, dall’altro lato, possono essere interpretate come manipolazioni atte a sfruttare e a violentare l’ambiente: questo è il pensiero dell’artista tedesco Joseph Beuys.
Ecologicamente impegnato, Beuys opera in direzione di una persistente difesa della natura: 7000 Querce è l’opera-performance iniziata in occasione di Documenta VII a Kassel, nei primi anni Ottanta: fuori dalla sede dell’esposizione colloca 7 mila lastre di basalto e per ogni pietra adottata dai visitatori, l’artista avrebbe piantato una quercia. 7000 Querce non è ancora giunta al termine, è viva e si modifica inarrestabilmente secondo dopo secondo, anche in assenza del suo creatore.
Opera sparsa per una città intera che rifiuta l’inserimento in musei e in gallerie e si fa portavoce di un nuovo tipo di artista che concepisce l’arte come strumento rivoluzionario per apportare un cambiamento drastico. In quegli anni non si parlava con urgenza di surriscaldamento globale, di cambiamenti climatici e di inquinamento, ma Joseph Beuys si fa precursore, uscendo dall’atelier e sensibilizzando il pubblico alle tematiche ambientali attraverso l’arte.
Andrea Villa