Mentre Matteo Renzi definiva “un nuovo Rinascimento” il rinnovato percorso politico dell’Arabia Saudita, Joe Biden prendeva posizioni dure nei confronti di Riyadh per quanto accade nello Yemen.
Come prima mossa, l’immediato congelamento della vendita di armamenti ai sauditi; colpevoli di utilizzare le armi statunitensi per compiere crimini di guerra contro la popolazione yemenita. In una sporca guerra per procura – tra Iran ed Arabia – che si trascina ormai da più di 6 anni.
Il nuovo presidente USA ed il suo consigliere alla sicurezza nazionale, Jake Sullivan, hanno fatto sapere che non intenderanno più sostenere gli attacchi sauditi contro lo Yemen. Ma, allo stesso tempo, hanno specificato come questo non voglia dire voltare le spalle al fedele alleato saudita e a smettere di combattere il fondamentalismo islamico. In ogni caso, la priorità resta porre la fine al conflitto in corso, invitando le parti a sedersi intorno al tavolo; sotto l’egida di Washington e delle Nazioni Unite.
Nella guerra in Yemen sono in atto due conflitti: il primo, principale, che vede i ribelli Houthi contrapporsi alle forze lealiste del presidente filo-saudita Hadi; il secondo, che vede al-Qaeda tentare di conquistare sempre più territorio a discapito degli altri due avversari.
Washington ha rassicurato Riyadh che continuerà ad offrire assistenza per la sua difesa; e, nel frattempo, spiragli per un “cessate il fuoco” nazionale si intravedono tra gli ancora molteplici punti divergenti. Tra questi ultimi, l’utilizzo dei porti di Hodeidah per le attività di importazione, le proposte avanzate a livello economico e umanitario (come le modalità di pagamento dei salari degli impiegati statali), l’apertura dell’aeroporto di Sana’a per voli internazionali e soprattutto la delicata materia dello scambio dei prigionieri.
Grande il lavoro anche da parte dell’inviato dell’ONU, Griffiths, per trovare un accordo tra le parti.
Federico Kapnist