By Clotilde Maria Iovino
Cosa è arte? Quali sono le opere d’arte e quali sono le sue caratteristiche essenziali? Sono queste le domande che si pone Arthur C. Danto, filosofo analitico della seconda metà del XX secolo.
Oggi sorge spontaneo, come al tempo di Danto, porsi il seguente quesito: se ci vengono dati due oggetti che si assomigliano sotto ogni aspetto, ma uno è un’opera d’arte e l’altro è un oggetto comune, come potremmo spiegarne la differenza?
Bisogna considerare che in passato, questa domanda era superflua perché l’opera d’arte aveva caratteristiche intrinseche tali da essere facilmente distinguibile da un oggetto comune. Nel XX secolo l’evoluzione dell’arte, invece, comincia a manifestare alcune trasformazioni interne che hanno comportato come conseguenza la trasformazione in opere d’arte di oggetti che erano di uso quotidiano. Un esempio eclatante sono le Brillo Box di Warhol di fronte alle quali sorge spontanea la domanda, perché quelle vengono considerate opere d’arte mentre lo stesso oggetto di uso comune no, visto che si somigliano talmente tanto da mettere in radicale discussione la possibilità di distinguerle?
È sicuramente affascinante capire come il termine arte si sia evoluto ed abbia mutato il suo valore intrinseco nel corso dell’antichità: il termine greco téchne, in latino ars ovvero arte, aveva come significato tutto ciò che veniva prodotto dall’abilità umana, senza fare distinzione fra ciò che oggi consideriamo opera d’arte e ciò che è il prodotto dell’artigianato o dell’industria, considerando che tutto deriva da una particolare abilità umana.
Per Platone l’arte ha una finalità concreta ed il suo raggiungimento riguarda una forma di conoscenza. La stessa cosa accade con gli artigiani che lavorano con la visione ben definita di quello che dovrà essere il risultato finale e con i pittori con i soggetti delle loro opere. Aristotele distingue fra un pensiero pratico, che si occupa di ciò che cambia e potrebbe non esistere e dell’azione pratica, e un pensiero teorico, che si occupa di ciò che non cambia ed esiste necessariamente. Quindi, distingue una sfera dell’episteme ovvero conoscenza, che si occupa delle verità eterne e necessarie, di ciò che esiste indipendentemente dall’attività umana, ed una sfera della pratica, che si occupa di ciò che cambia, che è mutevole, di ciò che viene prodotto dall’attività umana. Episteme è conoscenza di ciò che esiste per natura, téchne è conoscenza di ciò che è artificiale, di ciò che esiste grazie all’attività umana.
Il concetto moderno di bellezza non esiste nel pensiero antico. Gli scrittori ed i pensatori dell’antichità non furono capaci di separare le proprietà estetiche delle opere d’arte dalla loro funzione o dal loro contenuto intellettuale, morale, religioso o sociale, né di servirsi di queste proprietà estetiche come norme per classificare le belle arti o per farne oggetto di una interpretazione filosofica sistematica. Per Aristotele, ciò che la pittura e la tragedia hanno in comune in quanto imitazioni non le distingue, nei loro procedimenti, da altre arti come la calzoleria e la medicina. Il termine greco kalós ed il corrispettivo latino pulchrum non si distinguono dal bene morale. Quando Platone parla di bellezza si riferisce alle persone, all’anima ed alla conoscenza, e non menziona mai le opere delle arti. Gli stoici mettono in relazione la bellezza con la bontà. Per Cicerone la bellezza è la bontà morale. Panezio identifica la bellezza morale con il decoro. Plotino nei suoi trattati sulla bellezza non include la bellezza sensibile né quella visibile delle opere delle arti. In Agostino ci sono riferimenti alle arti ma non c’è una teoria delle belle arti.
Tornando a Danto, nel suo saggio del 1981, Trasfiguration of the commonplace, il filosofo si differenzia dalla filosofia tradizionale perché ammette la distinzione tra opere d’arte e oggetti comuni. Cerca di dare una risposta al quesito posto all’inizio giungendo ad una provvisoria formulazione della definizione di arte. Per Danto l’opera d’arte deve essere a proposito di qualcosa, ossia aboutness. Secondo lui “in primo luogo, le opere d’arte sono sempre a proposito di qualcosa (about) e pertanto hanno un contenuto o un significato e, in secondo luogo, per essere un’opera d’arte qualcosa deve incarnare il suo significato (embody)”.
Gli oggetti domestici sono densi di significati, ma lo capiamo solo quando li perdiamo, si rompono o si logorano; essi delineano il configurarsi della vita così come è vissuta, e questo concetto lo si può cogliere molto bene nelle opere di Warhol: non solo copiava gli oggetti di uso quotidiano della sua epoca, ma riproduceva eventi dei giornali, moltiplicava i volti delle celebrità dello spettacolo di quei anni e tendeva a conferire alle sue opere oltre che lo stesso aspetto anche il medesimo nome che già portavano in natura: Brillo Box, Campbell’s Soup, etc... creando un livello estetico, indistinguibile, assoluto.
Il pregio della teoria di Danto è di aver compreso una nuova relazione tra la filosofia e le arti in un’epoca di radicali cambiamenti culturali e dei canoni artistici, generando un necessario ripensamento tra ciò che è arte e ciò che non lo è. La sua teoria aiuta a spiegare perché il mondo dell’arte ora accetta linguaggi così diversi come il sangue, capre impagliate, letti dipinti, squali morti, etc..
Danto pone Warhol come momento di chiusura di un periodo artistico ben definito: le sue caratteristiche uniche, come la neutralità e l’ossessione di riproducibilità, cambiano radicalmente l’idea di bellezza che prima si associava all’arte mentre da questo momento viene fortemente messa in discussione.