Capitalisti sì, ma senza dimenticarsi di essere, in fondo, comunisti. Xi Jinping, presidente della Repubblica Popolare Cinese, è sceso personalmente in campo per contrastare il crescente potere di Alibaba e degli altri colossi tech cinesi. Colpevoli, secondo la nomenklatura di Pechino, di adottare comportamenti sleali e lesivi della libera concorrenza di mercato.
Alibaba in particolare è finito sotto la lente del Partito Comunista. Quella che è a tutti gli effetti una sorta di Amazon cinese – con un fatturato, nel 2019, di oltre 65 miliardi di euro e più di 115.000 dipendenti all’attivo – è stata fermata nei giorni scorsi quando il suo braccio finanziario, ANT, stava per sbarcare in borsa. L’IPO (offerta pubblica iniziale di titoli azionari, operazione con cui una società colloca parte di tali titoli per la prima volta sul mercato borsistico) interrotta sul nascere dalle autorità borsistiche cinesi, avrebbe frantumato ogni record portando il fondatore di Alibaba, Jack Ma, ad essere non più solo l’uomo più ricco della Cina, ma un diretto competitor delle banche statali.
Non pago di avere fermato la nuova banca di Jack Ma, il Partito ha anche recentemente stilato una bozza per limitare le pratiche sleali di Alibaba e di altri giganti del web: scontistiche ingannevoli, alleanze fittizie per impedire l’ingresso di competitor e sfruttamento dei dati sensibili degli utenti sono tra le politiche finite nel mirino, in quanto lesive della libera concorrenza e della legislazione anti-monopolistica.
Il messaggio di Xi Jinping è chiaro: nulla contro la ricchezza accumulata da imprenditori di successo, ma quando il potere centrale viene solo lontanamente sfiorato e l’iniziativa privata si rivela lesiva degli interessi dei consumatori-sudditi, si interviene. Ad ogni costo.
Federico Kapnist