Le temperature salgono anche ad alta quota costringendo gli stambecchi a spostarsi sempre più in alto in cerca di pascoli e quindi di cibo. Ma gli adattamenti comportamentali sviluppati da questa e altre popolazioni presenti sulle Dolomiti potrebbero non essere sufficienti di fronte al futuro incremento dello stress termico.
È ciò che emerge dallo studio pubblicato su Ecology Letters, frutto della collaborazione tra il dipartimento di Agronomia, Animali, Alimenti, Risorse naturali e Ambiente dell’Università di Padova e il dipartimento Biodiversità e Ecologia molecolare del Centro Ricerca e Innovazione della Fondazione Edmund Mach. La ricerca è stata condotta dal 2010 al 2017 nell’area dolomitica della Marmolada su 24 femmine di stambecco in età riproduttiva, combinando per la prima volta i dati dei sensori apposti sugli animali, per individuarne i movimenti e l’attività di foraggiamento e di riposo, quelli da remote sensing, per descrivere la variazione spazio-temporale dell’abbondanza e della qualità della vegetazione, l’osservazione diretta sul campo e proiezioni climatologiche.
I ricercatori hanno così potuto ottenere un quadro completo dell’ecologia e del comportamento di questa specie in dipendenza dai fattori ambientali, ma anche fornire una prospettiva di studio innovativa che possa essere applicata ad altre specie particolarmente soggette al cambiamento climatico.
“Durante l’inverno le femmine di stambecco rimangono a quote relativamente basse, circa 1700 metri, con attività alimentare e spostamenti molto ridotti – dice Paola Semenzato, che ha condotto la ricerca durante il suo dottorato di ricerca all’Università di Padova – per poi incrementare notevolmente il tempo dedicato all’alimentazione in concomitanza con la fusione del manto nevoso e l’inizio della ricrescita vegetazionale, che a sua volta segue il gradiente altitudinale”.
“Inizia così uno spostamento progressivo verso quote maggiori, fino ai circa 2600-2800 metri raggiunti in piena estate, per seguire questa ‘onda verde’: gli stambecchi riescono a sfruttare al meglio il foraggio ‘giovane’ e quindi di alto valore nutritivo, che trovano man mano che salgono di quota, rispetto a quello che troverebbero nelle aree di svernamento, dove la vegetazione è abbondante ma ’invecchia’ presto. A ottobre, con la stasi vegetativa anche in quota e le prime nevicate, si assiste ad una graduale discesa verso quote inferiori, negli assolati pendii coperti da lariceti che offrono un certo riparo durante i nevosi inverni dolomitici”.
Secondo gli scenari climatologici analizzati dagli autori sono quindi prevedibili ulteriori modifiche dei ritmi di attività degli stambecchi, che tenderanno a muoversi maggiormente nelle ore notturne, e a cercare di spostarsi sempre più in alto.
“Nell’insieme queste condizioni pongono vari interrogativi sulla capacità di questa e di altre popolazioni presenti nell’area dolomitica di adattarsi al progressivo riscaldamento climatico – sostiene Maurizio Ramanzin del dipartimento Dafnae dell’Università di Padova e coordinatore dello studio -. Lo spostamento verso l’alto è infatti limitato dall’orografia tipica delle Dolomiti che sono caratterizzate da aree povere di vegetazione e pareti rocciose a quote relativamente basse, a differenza delle Alpi Occidentali, che offrono disponibilità di praterie d’alta quota dove gli stambecchi possono contemporaneamente alimentarsi e ripararsi dal caldo. Inoltre, l’esposizione sempre maggiore a giornate di caldo intenso potrebbe ulteriormente spostare i picchi di attività di foraggiamento in orario notturno. In queste condizioni le femmine riproduttive, che hanno i capretti al seguito, potrebbero faticare a spostarsi e a reperire le risorse di cui hanno bisogno”.
Secondo gli scenari climatologici analizzati dagli autori sono quindi prevedibili ulteriori modifiche dei ritmi di attività degli stambecchi, che tenderanno a muoversi maggiormente nelle ore notturne, e a cercare di spostarsi sempre più in alto. Secondo i ricercatori, inoltre, studi come questi dovrebbero essere condotti ad ampio spettro su molte specie presenti sull’arco alpino particolarmente esposte al rapido cambiamento climatico, per poter individuare tempestivamente i contesti di maggior criticità.
“Nell’insieme queste condizioni pongono vari interrogativi sulla capacità di questa e di altre popolazioni presenti nell’area dolomitica di adattarsi al progressivo riscaldamento climatico – sostiene Maurizio Ramanzin del dipartimento Dafnae dell’Università di Padova e coordinatore dello studio – Lo spostamento verso l’alto è infatti limitato dall’orografia tipica delle Dolomiti che sono caratterizzate da aree povere di vegetazione e pareti rocciose a quote relativamente basse, a differenza delle Alpi Occidentali, che offrono disponibilità di praterie d’alta quota dove gli stambecchi possono contemporaneamente alimentarsi e ripararsi dal caldo. Inoltre, l’esposizione sempre maggiore a giornate di caldo intenso potrebbe ulteriormente spostare i picchi di attività di foraggiamento in orario notturno. In queste condizioni – conclude Maurizio Ramanzin – le femmine riproduttive, che hanno i capretti al seguito, potrebbero faticare a spostarsi e a reperire le risorse di cui hanno bisogno”.