La Procura di Genova ha annunciato la conclusione delle indagini per il tragico crollo del Ponte Morandi, avvenuto nell’agosto del 2018, in cui persero la vita 43 persone e altre 11 rimasero gravemente ferite: un’inchiesta durata 30 mesi, nella quale sono state coinvolte 69 persone e due società, Autostrade e Spea, la controllata incaricata della manutenzione della rete autostradale.
I reati contestati a vario titolo sono attentato alla sicurezza dei trasporti, crollo colposo, omicidio colposo e stradale e rimozione dolosa di dispositivi per la sicurezza dei posti di lavoro. Coinvolto anche il Ministero delle Infrastrutture, che avrebbe dovuto vigilare sulla gestione.
Tra i protagonisti Giovanni Castellucci, ex amministratore delegato di Aspi e di Atlantia; Paolo Berti, ex direttore delle operazioni centrali di Aspi; Michele Donferri Mitelli, ex responsabile delle manutenzioni di Aspi e Antonino Galatà, ex amministratore delegato di Spea Engineering, incaricata delle manutenzioni e del monitoraggio della struttura.
La sintesi di tutto il lavoro svolto dalla Procura di Genova sta in una frase scritta dai pubblici ministeri Massimo Terrile e Walter Cotugno, che hanno ricostruito l’intera storia del Ponte Morandi: “Tra l’inaugurazione del ponte nel 1967 e il crollo, quindi per ben 51 anni, non è stato eseguito il ben che minimo intervento manutentivo di rinforzo sugli stralli della pila 9”, quella poi collassata.
Quasi 2mila pagine per elencare una lista infinita di omissioni, che hanno portato all’incuria del viadotto, “non giustificabile con l’insufficienza delle risorse finanziarie necessarie, dal momento che Autostrade aveva chiuso i bilanci dal 1999 al 2005 in forte attivo e che tra il 2006 e il 2017, l’ammontare degli utili era variato da un minimo di 586 ad un massimo di 969 milioni, distribuiti agli azionisti in una percentuale media tra l’80% e il 100%”, come hanno concluso i pm.
Quello che si legge tra le righe, è che il ponte è crollato perché era malandato, ed era in quello stato perché non venivano fatte le manutenzioni, che erano state ridotte al minimo per contenere i costi e massimizzare i profitti, come del resto era già emerso da diverse intercettazioni .
La Procura è arrivata anche a comparare la gestione del Ponte Morandi prima e dopo l’affidamento di Autostrade al gruppo Benetton, considerando quel momento uno spartiacque: “nei 36 anni e otto mesi, dal 1982 al crollo, gli interventi di natura strutturale eseguiti sull’intero viadotto erano stati per il 98,1% eseguiti quando il concessionario era pubblico e per il restante 1,99% dal concessionario privato. La spesa media giornaliera del concessionario pubblico era di 3665 euro al giorno, quella dei Benetton di 71 euro, con un decremento pari al 98,05%”.
Quanto poi alla questione dei controlli e della sorveglianza, si rasentava il comico: “Le ispezioni visive degli stralli venivano sistematicamente eseguite dal basso, con binocolo e cannocchiale”, come è stato evidenziato durante le indagini.
Nel 2017, un anno prima del crollo, l’ingegner Antonio Brencich, invitato a partecipare al Comitato tecnico che avrebbe dovuto decidere sull’intervento di rifacimento degli stralli, descriveva così la situazione: “Uno stato di degrado impressionante, con la rottura di cavi metallici degli stralli e un’incredibile pessima prestazione del manufatto”.