Con la riforma sanitaria avrà sempre più centralità la medicina territoriale, argomento che è al centro di un’indagine di Ires Veneto, commissionata dalla Cgil regionale. La pandemia – ha spiegato Barbara Bonvento, ricercatrice Ires che con Manuela Nicoletti e la supervisione del docente del Bo, Vincenzo Rebba ha curato l’indagine sul puzzle della nuova sanità – ha evidenziato l’importanza dell’articolazione di un percorso di cure che non sia limitato all’ospedale o al medico di base come due unici poli.
I medici di medicina generale sono troppo pochi di fronte ad una platea di assistiti sempre più anziana. E le borse di specializzazione nel 2019 sono state solo 25 in tutta la regione. In Veneto ci sono 3.041 medici di base, il fabbisogno è di 3.238. Il risultato dice Bonvento è che “nel 2019, quando è iniziata l’indagine, c’erano 344 ‘aree carenti’ e un anno dopo sono diventate 441. Per aree carenti, si intendono le aree in cui non si riesce ad avere un medico ogni 1.200 potenziali assistiti. Il risultato è che, in media, un medico di base veneto ha 1.351 pazienti da seguire ma il 49,7% ne ha oltre 1.500. La media nazionale di chi sfonda quota 1.500 è del 34%”.
Il problema si complica alla luce dello studio del professor Rebba, in fase di ultimazione con i dipartimenti di Scienze Mediche e Scienze statistiche del Bo sulla pandemia: “Peggio del Veneto come numero di medici di base e come medicine integrate solo la Lombardia e Bolzano. Dai nostri risultati, lo spiegano bene i numeri di alcune province lombarde, la variabile più incisiva nell’aumento di mortalità da Covid-19 è proprio la presenza non sufficiente di medici di base e medicine integrate”.
Emerge quindi che dove funziona meglio la medicina di base, la presa in carico dei pazienti durante la pandemia ha contribuito a combattere la mortalità legata alla pandemia.
Per l’assistenza domiciliare integrata ci sono poi le Usca, le «squadre speciali» di medici e infermieri nate con il Covid. In un anno il numero di veneti curati a domicilio è cresciuto del 23,6% e la percentuale media è più alta di quella nazionale. Il Veneto in questo caso si distingue ma c’è un «ma». Le cure erogate sono per lo più per casi “poco complessi”. “Lo testimoniano le ore per anno dedicate a un paziente – spiega Bonvento – 6 contro una media nazionale di 20”. Solo 4 Ulss su 9 assicurano la copertura oraria prevista: 7 giorni su 7 dalle 7 alle 21. E, secondo Ires, 5 Ulss su 9 hanno una cartella sanitaria informatizzata.
Veniamo quindi alle «Strutture intermedie» dove il problema sono i posti letto. Quelli negli ospedali «classici» sono stati ridimensionati secondo indicazioni nazionali proprio per essere compensati da altri percorsi di cura. Oggi sono poco più di 800 ma la Regione, lo scorso anno, ha spostato l’asticella a 2.089. Negli ospedali di comunità ci sono 1.436 letti, nelle unità riabilitative territoriali 345 e negli hospice 308. Le Rsa, residenze socio assistenziali, soffrono, com’è noto, di un fondo per la non autosufficienza che copre solo il 70% del fabbisogno.
I posti letto sono diminuiti, quelli delle strutture intermedie non sono ancora a regime e quindi crescono quelli privati. Resta poi la nota penuria di personale. “Il Veneto conquista però una buona coerenza economia” conclude Bonvento. Paolo Righetti, Cgil, commenta: “Serve un piano straordinario di assunzioni, la pandemia ha evidenziato come questa incompiuta pesi con una pandemia in corso. Prendiamo i vaccini, iniziamo a farli a domicilio a chi non può muoversi anziché cercarne dosi extra da misteriosi intermediari”.