C’era un tempo l’Unione Sovietica. Al cui interno, le pur numerose e diverse repubbliche socialiste, facevano tutte comunque parte dello stesso Stato, retto da Mosca come una grande federazione.
Sotto l’ombrello sovietico, poco importava se una determinata regione facesse parte di questa o quella repubblica socialista, in quanto era sempre e comunque il Cremlino a comandare. Il più celebre esempio in tal senso è rappresentato dalla Crimea: storico avamposto marittimo della Russia zarista, ereditato poi dall’URSS di Stalin, dall’importanza strategica fondamentale.
Non ci fu alcun problema, quando Khrushchev (si dice in preda alla generosità compagnona provocata da abbondanti dosi di vodka) una sera del febbraio 1954 “regalò” la penisola sul Mar Nero alla Repubblica Socialista d’Ucraina, sottraendola di fatto alla Repubblica Russa. Quando l’Unione Sovietica collassò, e la neonata Ucraina iniziò a mostrare crescenti segnali di malcontento nei confronti di Mosca, il problema di chi fosse la Crimea, ora che non c’era più il collante sovietico, si ripropose. Fino al ben noto epilogo del 2014; che spinse Mosca, spaventata dal potenziale inglobamento dell’Ucraina nella NATO, a rioccupare quella che era una storica ed imprescindibile porzione di territorio del suo ex spazio imperiale, oltre che la principale base navale nel Mar Nero.
Nel tormentato Caucaso, la vicenda della regione del Nagorno-Karabakh è più o meno la medesima. Finché c’era l’Unione Sovietica, e Armenia e Azerbaijan erano anch’esse Repubbliche Socialiste facenti parte dell’URSS, poco importava se l’area in questione fosse dell’uno o dell’altro. Per quanto, la decisione di Stalin di assegnarla arbitrariamente all’Azerbaijan, gettò i semi della discordia che stanno alla base delle tensioni che ancora oggi si ripropongono.
Come accaduto nell’ex-Jugoslavia, l’odio atavico tra popolazioni di diversa confessione (cristiani gli armeni, musulmani gli azeri) costrette alla convivenza forzata all’interno degli stessi confini, continuava a scorrere latente e sotterraneo, come un fiume carsico. Nonostante il regime comunista, di fatto, scongiurasse ogni tipo di violenza.
Quando però l’URSS crollò, lo scontro, inevitabilmente, ripartì. Complici anche le sciagurate deportazioni di Stalin volte a cancellare ogni specificità territoriale all’interno dell’Unione Sovietica – mescolando le popolazioni al fine di creare un melting-pot fra le varie Repubbliche – che nel caso specifico avevano comportato un’imponente presenza di azeri in quello che, però, era storicamente un territorio abitato da armeni.
Da allora, con sporadici scontri che ciclicamente si ripropongono, la Repubblica del Nagorno-Karabakh è di fatto contesa tra Armenia e Azerbaijan. È uno stato a sovranità limitata, praticamente non riconosciuto da nessun altro stato al mondo (se non da altri territori nella sua stessa situazione, quali Abcazia, Ossezia del Sud e Transnistria), staccatosi dall’Azerbaijan nel 1991 e che rimane in questo limbo di tensione latente fra le due piccole repubbliche caucasiche. L’Azerbaijan – ricco produttore di gas e petrolio – sostenuto da parte del mondo musulmano (Turchia, Pakistan, Iran) e la più povera Armenia spalleggiata dalla Russia. Russia che mantiene, però, ottimi rapporti anche con Baku, capitale azera. E che ha tutte le carte in regola, quindi, per poter essere il pacificatore della situazione; potenzialmente pericolosa in quello che per Mosca è il cortile di casa ma, soprattutto, il ventre molle del suo sterminato territorio.
Federico Kapnist