“Preferiscono venderlo all’estero che somministrarlo ai propri cittadini. Inoltre, hanno accelerato eccessivamente i tempi senza avere chiari riscontri sui suoi effetti collaterali. Come ci si può fidare?” Sono queste le affermazioni più ricorrenti sullo Sputnik V; circondato da un’aura di diffidenza che s’intreccia, inevitabilmente, con la russofobia dilagante degli ultimi anni.
La vicenda di Alexey Navalny (che proprio sullo Sputnik si era espresso ad agosto, definendolo “una balla colossale”) e l’irrisolto conflitto in Ucraina, vanno fin troppo a braccetto con il monopolio anglo-americano sui vaccini maggiormente utilizzati sinora: Pfizer, AstraZeneca e Moderna. E il sospetto che l’arrivo di questo Sputnik possa dare fastidio, trova terreno fertile.
Poco importa che ben 50 stati al mondo, tra cui alcuni membri UE, lo abbiano già autorizzato e ritenuto, quindi, valido. Poco importa che The Lancet, prestigiosa rivista medica, ne abbia confermato la bontà e l’efficacia. Poco importa che i tempi necessari ai test siano stati pressoché identici a quelli degli altri vaccini oggi utilizzati. Poco importa, soprattutto, che l’Europa annaspi tra carenza di dosi, enormi ritardi nelle consegne, inefficienze della macchina organizzativa e governi che, in preda al panico, sanno solo ordinare chiusure indiscriminate con effetti catastrofici. Lo Sputnik deve rimanere il più possibile fuori dal mercato europeo.
Ma qual è la verità dietro al farmaco messo a punto dal Gemaleya Institute di Mosca ed alle sue ingenti esportazioni, strumento di soft-power con cui la Federazione Russa proverebbe ad aumentare il suo prestigio internazionale? Fondamentalmente, a Mosca possono permettersi di esportare vaccini poiché sono in grado di garantire la domanda interna rispetto all’impatto della malattia, ben più blando rispetto a Stati Uniti ed alla flagellata Europa. Secondo i dati della John Hopkins University, consultabili su ilSole24ore.it, il Covid-19 in Russia ha provocato 61 morti ogni 100.000 abitanti. Un numero rilevante, ma assai più basso rispetto ai 167 dell’Italia, ai 184 del Regno Unito, ai 154 della Spagna e via così.
Anche i casi totali, circa 3.000 ogni 100.000 persone, sono la metà rispetto ai paesi europei più colpiti; e, da dicembre, sono oramai in caduta libera. Motivo per cui in Russia, già da diverse settimane, la vita ha potuto riprendere con qualche parvenza di normalità.
Questo spiega perché Mosca possa permettersi di esportare il suo farmaco all’estero e garantire allo stesso tempo la domanda interna, sulla base della gravità della malattia che, come noto, ha avuto impatti ben differenti da un territorio all’altro. Che poi i russi stiano disperatamente provando a ricostruirsi un’immagine degna e prestigiosa a livello internazionale, e che questo passi anche attraverso il soft-power e quindi, in questo caso, anche attraverso lo Sputnik V, questo è lampante. Ma è forse un male? La geopolitica è più importante della salute delle persone?
Federico Kapnist