Oggi, 25 novembre, si celebra in tutto il mondo la Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne. Una data non scelta a caso, ma che ricorda l’uccisione delle tre sorelle Mirabal, Patria, Minerva e María Teresa, attiviste politiche uccise nel 1960 dagli agenti del dittatore Rafael Leonidas Trujillo, a Santo Domingo, nella Repubblica Dominicana.
Quella data è diventata un simbolo, e nel 1999 è stata istituzionalizzata anche dall’Onu con la risoluzione 54/134 del 17 dicembre, diventando un’importante giornata di celebrazioni in tutto il mondo.
Ma a 60 anni di distanza che cosa è stato fatto, le donne cosa hanno ottenuto in termini di diritti? Anche oggi purtroppo la cronaca ci parla di altri due femminicidi avvenuti nel nostro Paese, secondo le statistiche, ce n’è 1 ogni 3 giorni. Dati drammatici, che ci raccontano di un’Italia ancora legata a dei retaggi culturali anacronistici.
Qualcosa certo è stato fatto, basti pensare alla Legge contro la violenza sulle donne, dello scorso anno, nota come “Codice Rosso”, ma con queste disposizioni si interviene a fatto già accaduto, non si previene la violenza, in particolare domestica, alla quale troppe donne sono ormai abituate.
E quando si parla di violenza, spesso ci si limita a parlare di quella fisica, raramente di quella psicologica e ancor meno, di una violenza sociale più subdola, che riguarda la disparità dei diritti, come aveva sottolineato il presidente Mattarella. Eppure anche questa è una forma di violenza: essere pagate di meno perché si è donne non è normale, accettare contratti ingiusti perché si è donne non è normale, essere licenziate perché incinte non è normale, chiedere ad un colloquio di lavoro se si ha in cantiere di mettere su famiglia non è normale, ciononostante sono realtà con le quali molte donne si rapportano quotidianamente.
L’essere mamma non dovrebbe compromettere la carriera di una donna, ma i numeri sono impietosi: in un anno sono oltre 37 mila le neo-mamme lavoratrici che hanno presentato le dimissioni. La più ricorrente tra le motivazioni che spingono a lasciare è la difficoltà nel conciliare gli impegni lavorativi con la necessità di dover accudire i figli più piccoli, soprattutto se non ci sono nonni a disposizione e non ci si può permettere di pagare baby-sitter o nidi. Ma il problema è della mamma-lavoratrice o dello stato o dell’azienda che da una parte non aiuta la genitorialità e dall’altra non pensa a politiche di lavoro più flessibili?
E così si rischiano di perdere le competenze e la professionalità di tante donne che, come riportato dal Report dell’Istat sui livelli di istruzione, nonostante abbiamo livelli di istruzione più elevati di quelli degli uomini, il tasso di occupazione femminile è inferiore di oltre 20 punti percentuali a quello maschile. Si ferma infatti al 56,1% contro il 76,8% degli uomini evidenziando un divario di genere più marcato rispetto alla media dei paesi europei. Per non parlare poi della disuguaglianza anche per quanto riguarda la retribuzione.
Tante cose sono state fatte, ma la consapevolezza è che ancora molte restano da fare. Non ci serve in questo momento una lotta di genere, uomini contro donne, quanto una sensibilità finalmente condivisa, un’educazione che ci faccia riconoscere tutti come esseri umani.
Lucrezia Melissari