Noi veneti sappiamo fin troppo bene quanto turchi e veneziani, anche quando si scornavano pesantemente, non interrompessero mai i proficui commerci che li legavano. Le rappresentanze diplomatiche della Porta e della Serenissima, restavano sempre aperte e operative poiché gli affari, in fondo, dovevano sempre andare avanti.
Non deve quindi stupire, come in un periodo di ritrovata Guerra Fredda su molteplici scenari, e in cui il nuovo presidente degli Stati Uniti si permette di definire “assassino” il suo omologo russo, Putin, il commercio tra USA e Russia cresca floridamente.
Nello specifico, cresce il commercio ma soprattutto l’importazione di petrolio russo da parte di Washington: 538 mila barili di greggio al giorno, con un aumento del 3,5% su base annua. A riferirlo è la EIA, Energy Information Administration. Sembra un ossimoro; nell’era in cui la Casa Bianca mette i paletti alla Germania per la costruzione del gasdotto North Stream 2 e fustiga la Russia con il caso Navalny, compra in maniera copiosa il suo petrolio.
I motivi sono soprattutto economici, naturalmente, conditi però da un pizzico di diplomazia e di questioni qualitative. Il petrolio russo, oltre che essere a buon mercato e di buona qualità, è, in quanto “pesante”, adatto ad essere lavorato dalle raffinerie presenti in Texas e Louisiana. Il qualitativamente simile greggio venezuelano, di cui gli Stati Uniti andavano ghiotti, subisce invece il riflesso delle sanzioni applicate contro il governo di Maduro. Ben più dure di quelle applicate contro Mosca che si rivelano essere, alla luce di questi eventi, più uno specchietto per le allodole che non una concreta volontà di rompere i rapporti.
Gli Stati Uniti, in modo pragmatico, fanno affari con i russi mentre dicono agli europei di non farli. Piccoli trucchi di spregiudicata diplomazia.
Federico Kapnist