Non si sblocca la vicenda dei 18 pescatori siciliani, oramai da oltre un mese in stato di arresto da parte delle forze fedeli al generale Khalifa Haftar; per lo più nel silenzio mediatico.
Il 1 settembre, lo ricordiamo, alcuni pescherecci italiani erano stati fermati al largo delle coste libiche (sembra a circa 30/35 miglia) e poi portati a terra; dove per l’equipaggio delle navi è iniziato un vero e proprio incubo.
I pescatori sono da allora in stato di arresto; accusati di avere sconfinato in acque territoriali libiche – quando il limite internazionalmente riconosciuto è di 12 miglia – e di “essersi appropriati delle risorse ittiche appartenenti al popolo libico”, come hanno recitato i farneticanti proclami populisti delle autorità locali. Per il rilascio, il governo di Haftar ha messo in piedi un ricatto bello e buono: la liberazione dei pescatori in cambio della scarcerazione di 4 calciatori libici detenuti nelle carceri italiane. Peccato che tali “calciatori” siano stati condannati a 30 anni per traffico di esseri umani e omicidio; e che quindi sia improponibile – anche per un’Italia che ha abdicato negli ultimi anni alla sua politica estera nel Mediterraneo, ai suoi confini marittimi e alla considerazione di cui godeva nel mondo che si affaccia sul Mare Nostrum – cedere ad una richiesta folle e che umilierebbe oltremodo il nostro Paese.
La vicenda purtroppo s’inserisce all’interno di una guerra in cui l’Italia non ha certo brillato per autorità e risolutezza; e con cui la fazione fedele ad Haftar ha più che il dente avvelenato.
Il sospetto è che le cose prima o poi si risolveranno; forse all’italiana. Con una soluzione di tipo economico celata al pubblico, che salvi, formalmente, la faccia all’Italia e lasci il ruolo di vincitore ad Haftar, arbitro della questione. Certo è che i libici, che negli ultimi giorni hanno rincarato le accuse ai danni dei pescatori sostenendo di avere trovato droga a bordo della nave, pare stiano provando ad alzare la posta per portare a casa il miglior risultato dalla trattativa. Minacciando un processo-farsa e anni di reclusione per gli incolpevoli pescatori, divenuti merce di scambio e strumento per dare un contentino all’esausto popolo libico. Macchinazione di un generale la cui stella si è oramai spenta.
La difficile operazione diplomatica è ora di competenza dei funzionari del ministero degli Esteri e dei servizi segreti, alcuni tra i fiori all’occhiello del Paese. Troppo volte chiamati a rimediare ai danni compiuti da una politica poco accorta e che ha il tremendo vizio di non voler far rispettare le nostre ragioni a livello internazionale.
Federico Kapnist