È stato presentato in un evento online, che ha visto susseguirsi diciassette brevi pillole video di analisi ed approfondimento, Il Rapporto 2020 di Fondazione Nord Est dedicato alla “Ripartenza”. Il primo set di interventi ha fornito una panoramica degli effetti che la pandemia ha avuto nelle nostre regioni in termini di crescita, occupazione, competitività, sostenibilità dello sviluppo, sottolineando non solo le ricadute economiche, fortemente negative, ma anche quelle sociali ed ambientali. I successivi speech hanno invece evidenziato le lezioni che la pandemia ci ha impartito e che è importante saper utilizzare per ripartire.
CONGIUNTURA
I numeri degli effetti della pandemia sul fronte economico non lasciano dubbi sulla gravità della crisi che ha investito tutti i paesi. La crisi non ha risparmiato nemmeno i territori più virtuosi, dai paesi che trainano la crescita mondiale (Stati Uniti), ai leder a livello europeo (Germania, Francia), fino alle regioni più performanti a livello italiano, tra cui quelle del Nord Est. Secondo le stime la maggior parte delle economie dovrebbero recuperare la caduta subita nel corso di quest’anno entro il 2021, a partire da quelle asiatiche che per prime hanno saputo arginare gli effetti sanitari della pandemia.
Per quanto riguarda il Nordest, Prometeia stima che il calo subito nel 2020 sia pari a -9,3%, con un recupero solo parziale nel 2021 (5,6%). Il 70% degli imprenditori nordestini stimano che il recupero dei valori pre-crisi sarà possibile solo nel 2022. A pesare su tale dinamica il crollo del commercio mondiale, stimato pari a più del 10%, che ha avuto un impatto rilevante sulle regioni del Pentagono, ovvero il Nord Est allargato a Lombardia ed Emilia-Romagna. Il calo nazionale delle esportazioni del 16% è ampiamente ascrivibile proprio alle regioni di quest’area – in primis Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna cui si aggiunge il Piemonte – il cui peso sull’export complessivo nazionale è pari al 66%. Non si tratta solo di riduzione dei flussi di merci, ma di un impatto importante sul futuro delle catene globali del valore in cui è coinvolto, con intensità diverse, il 64,7% delle imprese del nostreo territorio.
La crisi ha colpito sia le imprese manifatturiere che quelle dei servizi, che sono state maggiormente colpite dalle restrizioni imposte per contenere i contagi, e hanno registrato un forte calo della domanda. È il caso del turismo che rappresenta una componente importante dell’economia nordestina che ha sempre potuto contare su una forte presenza di arrivi internazionali, che in quest’anno sono fortemente diminuiti con un -57% a livello nazionale. A livello nordestino il calo degli arrivi complessivi nel periodo gennaio/ottobre è stato stimato pari a -49% rispetto allo stesso periodo del 2019. Per i prossimi mesi che vedono confermato un ulteriore calo degli arrivi internazionali, che gli esperti stimano ritorneranno ai livelli pre-crisi non prima di 2-4 anni, si prevede che il Nord Est subirà impatti più pesanti rispetto alle regioni, come ad esempio quelle del Sud, che dipendono maggiormente da un mercato domestico.
COMPETITIVITÀ
Come nel turismo si stanno manifestando cambiamenti sul fronte della domanda che potrebbero diventare dinamiche strutturali cui l’offerta dovrà saper dare risposte adeguate, nello stesso modo la pandemia ha imposto un’accelerazione complessiva ad alcuni trend in atto da tempo e che oggi attendono precise scelte strategiche, in particolare il tema della sostenibilità, del digitale e dei modelli di entrata nei mercati internazionali.
La pandemia ha accentuato le dinamiche che vedono aprirsi una nuova fase di globalizzazione dove le politiche protezionistiche, le tecnologie digitali e l’automazione stanno aprendo una nuova fase d globalizzazione in cui anche le PMI dovranno familiarizzare con nuovi strumenti di ingresso dei mercati internazionali. L’export, infatti, continuerà certamente a svolgere un ruolo fondamentale, ma non sarà più la modalità esclusiva per raggiungere i consumatori oltre frontiera: all’esportazioni si affiancheranno investimenti diretti, joint venture e licencing.
L’investimento in digitale da parte delle imprese sarà fondamentale per la capacità delle imprese di adeguarsi in modo competitivo alla nuova fase di globalizzazione e la pandemia sta spingendo proprio verso processi di adozione e di apprendimento di tali nuove tecnologie.
Ad oggi le imprese del Nord Est evidenziano quattro profili di internazionalizzazione, tra loro non esclusivi che mettono in luce come ben il 92,8% delle aziende intervistate da Fondazione Nord Est vende o acquista all’estero.
Profilo di internazionalizzazione | Caratteristiche | |
Imprese “non internazionalizzate” | Imprese che dichiarano di non aver nessuna relazione con mercati e fornitori esteri | 5,6% |
Imprese che “vendono o acquistano all’estero” | Imprese che vendono prodotti o servizi all’estero e/o utilizzano fornitori esteri e/o commissionano all’estero la produzione. | 92,8% |
Imprese con strategie di internazionalizzazione
“commerciale” |
Imprese che hanno una rete di agenti all’estero e/o hanno una rete di filiali commerciali e/o utilizzano il licensing | 45,1% |
Imprese con strategie di internazionalizzazione
“produttiva” |
Imprese che producono all’estero sia grazie a strutture preesistenti o attraverso stabilimenti aperti ex-novo. | 14,7% |
Fonte: Fondazione Nord Est – UniCredit 2020 (306 casi)
La loro capacità di essere presente sui mercati globali si intreccia con la digitalizzazione dei loro processi produttivi evidenziando una relazione significativa tra dotazione di tecnologie digitali e internazionalizzazione:
- le imprese con livello elevato di “digitalizzazione classica” (sito web, e-commerce, social media), sia quelle che adottano “tecnologie 4.0” (in particolare manifattura additiva e robot) hanno sviluppato in misura maggiore strategie di internazionalizzazione produttiva.
- la digitalizzazione in generale, e in particolare quella “classica”, è fortemente correlata anche con strategie di internazionalizzazione commerciale.
Sul fronte della sostenibilità, le imprese del Nordest evidenziano ormai la consapevolezza che si tratta di un elemento non solo indispensabile per ottenere maggiore efficienza e quindi una riduzione di costi, ma anche, e soprattutto, per garantire la competitività e sopravvivenza nel mercato nel medio-lungo periodo. I dati mostrano, infatti, come in presenza di strategie di sostenibilità più rilevanti si registri un dato di reddittività più elevato.
Torna quindi fondamentale l’investimento nelle competenze utili alla progettazione sistemica e al saper cogliere le opportunità. Perché questo avvenga è indispensabile che il Paese metta al centro il tema dell’education superando le criticità strutturali del sistema formativo italiano:
- il ridotto investimento pubblico, pari appena al 3,8% del Pil nazionale (7,9% la media europea);
- il mancato sviluppo degli istituti professionali come luoghi di specializzazione;
- le modalità di insegnamento non adeguate ai nuovi mezzi di comunicazione;
- una didattica strutturata senza collegamenti con materie trasversali;
- la marginalità di discipline come geopolitica, economia, informatica ed educazione civica; – edilizia e infrastrututre digitali carenti.
LAVORO
Una misura dell’impatto della pandemia sul lavoro non è ancora definibile in termini complessivi e non lo potrà essere almeno fino a quando sarà in vigore il divieto di licenziamento, ora prorogato al 30 giugno, che blocca le scelte di riorganizzazione delle imprese. Nemmeno il dato sulla demografia di imprese oggi disponibile è sufficiente a definire gli effetti del rallentamento e del blocco delle attività imprenditoriali anche in considerazione del fatto che generalmente è nel primo trimestre che Infocamere registra le comunicazioni di chiusura avvenute a fine anno.
Tuttavia, alcuni elementi sono già oggi ben delineati: da un lato la tenuta dei contratti a tempo indeterminato, dall’altra la caduta rilevante dei contratti a termine, stagionali ma non solo, soprattutto a causa delle restrizioni in molte attività di servizi – in primis il turismo, la ristorazione, la cultura, lo sport – che più utilizzano questa tipologia di rapporti.
I dati di Veneto Lavoro, inoltre, rendono evidente tra gli effetti della pandemia il calo delle occasioni occupazionali pari in Veneto a -24% a fine 2020 e in crescita a gennaio (- 27% sul dato del medesimo mese del 2020). Caduta dei contratti a termine, riduzione delle occasioni occupazionali hanno determinato una caduta delle assunzioni soprattutto per le donne e i giovani.
Gli imprenditori nordestini, intervistati a fine ottobre 2020, si attendono tuttavia l’emergere nei prossimi mesi di nuovi ambiti di crescita dell’occupazione: sanità, farmaceutico, logistica, digitale, alimentare. In ognuno di questi ambiti saranno più importanti le competenze digitali (per il 30% degli intervistati), accanto ad alcune competenze trasversali, come saper gestire situazioni e problemi imprevisti (43,7%), farsi carico di attività nuove e sfidanti (43,7%), l’autonomia (40,9%).
La pandemia, tuttavia, ha rappresentato per le imprese l’occasione per sperimentare un’innovazione che sembrava impensabile per i modelli organizzativi tradizionali delle nostre aziende basate soprattutto sul controllo e la presenza fisica dei lavoratori: lo smartworking, utilizzato da oltre il 40% delle imprese nordestine durante il primo lockdown. Che sebbene sperimentato soprattutto in termini di lavoro da casa ha reso obbligatorio la diffusione di strumenti digitali di lavoro e di collaborazione da remoto e ha costretto il management ad applicare gli strumenti della fiducia e dell’organizzazioni per obiettivi.
Prima di marzo 2020 il remote working coinvolgeva solo l’1,2 degli occupati, a novembre, come mostrano i dati Istat, oltre l’11% (10,1% nel Nord Est), con una diffusione maggiore nei settori dei servizi di informazione e comunicazione, nell’attività professionali scientifiche e tecniche, nella attività a supporto delle imprese.
Sebbene nel futuro lo smart working non sarà “la” norma perché la sua praticabilità andrà declinata in base alle caratteristiche aziendali, del settore, del prodotto e servizio offerto, nella professione coinvolta, tuttavia il test è stato fatto e non si torna più indietro e lo stigma del lavoro da casa che riduce la produttività è venuto meno, lasciando spazio alla possibilità di innovare e sfruttare l’investimento fatto in tecnologie e capitale umano.
Tali trasformazioni si incroceranno con la transizione digitale che coinvolge il lavoro e le nuove competenze necessarie e con una dinamica demografica che vede una forte contrazione del numero di giovani disponibili sul mercato del lavoro, giovani che spesso avranno aspirazioni professionali distanti rispetto alle richieste delle imprese. In prospettiva, quindi, emergeranno problemi sul fonte della tenuta dei sistemi di welfare: nei prossimi decenni il numero di persone non attive (beneficiarie di welfare) ogni 100 persone attive (che sostengono il welfare) aumenterà passando da 55 attuale a 63 nel 2030 e a 85 nel 2050.
Dalla pandemia del 2020 abbiamo imparato un’altra grande lezione. I nostri sistemi sociali ed economici posseggono capacità di innovazione, e quindi di adattamento a eventi catastrofici imprevisti, superiori a quello che ci si aspettava. Ma non basta. Oggi c’è l’occasione di poter disporre di una quantità di risorse ingenti utili a non solo a superare la fase dell’emergenza, ma anche a porre rimedio ai problemi di lungo periodo del Paese. Servono visioni innovative e politiche che siano costruite su nuovi patti pubblico-privato, che valorizzino le specificità territoriali e che pongano al centro le competenze e i talenti delle persone come vero motore per la Ripartenza.