Il triestino Leo Castelli, per la strategica rete di rapporti che crea nella New York del secondo dopoguerra, può essere considerato “l’inventore del sistema dell’arte”. Ma quando usiamo questa espressione, oramai entrata nell’uso corrente del nostro linguaggio, a cosa ci riferiamo?
Innanzitutto, una premessa necessaria è distinguere l’arte nella sua concezione poetica, come una delle massime espressioni umane che avvicina l’uomo, nel suo atto creativo, a Dio, e il sistema dell’arte. Si tratta di due realtà differenti che si incrociano di rado.
La concezione poetica dell’arte e l’immagine dell’artista come genio creatore che vive isolato su una “torre d’avorio”, negli anni Sessanta del Novecento, passano in secondo piano: dell’opera d’arte viene privilegiato il suo valore economico, determinato dal potere delle strutture mercantili e museali di promozione che stanno dietro ad ogni artista. Una volta che l’opera d’arte esce dallo studio, viene presa in carico dal sistema e il suo creatore non ha più alcun potere su essa.
Così, artista e opera, i due indiscussi protagonisti del mondo dell’arte, nel sistema sono solo il punto di avvio di un processo complesso, che ruota intorno, sì, all’opera, ma intesa come prodotto-arte.
Il sistema dell’arte, questo “microcosmo” chiuso in sé stesso che esclude la realtà esterna, come lo definisce il gallerista e collezionista Charles Saatchi, nasce negli anni Sessanta in America. L’espressione viene usata per la prima volta nel decennio successivo da Lawrence Alloway – critico anglosassone a cui si deve anche la definizione di Pop(ular) Art– che, sulla prestigiosa rivista Art Forum, scrive un articolo intitolato «Il mondo dell’arte descritto come sistema».
Non è un caso che il sistema dell’arte si sviluppi proprio a New York che vive, secondo la definizione del conte Giuseppe Panza di Biumo, un “Rinascimento Intellettuale”. Nella capitale americana c’è il denaro, ci sono gli artisti, fuggiti dall’Europa infiammata dalla Seconda Guerra Mondiale, ci sono i musei, come il MoMA, il Whitney e il Guggenheim, nati grazie alle donazioni dei grandi magnati, ed infine, c’è un’importante rete di gallerie d’arte, come quella di Leo Castelli e “Art of this century” di Peggy Guggenheim.
In Italia, il primo che riflette sui mutamenti di questi anni è Achille Bonito Oliva che, nel ’75, scrive una serie di articoli a riguardo sulla rivista Domus. Articoli che saranno poi raccolti nel saggio «Arte e sistema dell’arte» in cui definisce quest’ultimo una «filiera» e una «catena di S. Antonio» in cui l’artista crea, il critico media, il gallerista vende, il collezionista tesaurizza, il museo storicizza, i media celebrano e il pubblico contempla.
Bonito Oliva ancora non menziona le case d’aste, in quanto, il duopolio Christie’s–Sotheby’s introduce il dipartimento di arte contemporanea solo negli anni Ottanta.
Con la definizione “sistema dell’arte” ci si riferisce al mercato e alla circolazione delle opere; può essere inteso come un soggetto collettivo al cui interno agiscono vari attori; si avvicina, secondo Alessia Zorloni, al cluster britannico, ovvero un gruppo di operatori economici e organizzativi il cui vantaggio competitivo è accresciuto dalle interazioni e dai legami che sviluppano tra loro.
In realtà, seppure il sistema dell’arte sia stato codificato negli anni Settanta, il processo è iniziato tempo prima. Si può porre come punto di partenza, la nascita delle poetiche dell’oggetto, quando nell’arte emerge una nuova attenzione al mondo esterno, alla metropoli e al suo paesaggio urbano, alle sue insegne pubblicitarie e, soprattutto, alla società dei consumi.
I primi esponenti di questa tendenza sono i giovani artisti New Dada – etichetta attribuita loro da Leo Castelli in riferimento ai ready made duchampiani – nei quali lavori, l’oggetto di consumo entra prepotentemente e diventa protagonista; come si vede in Bed (1955) di Rauschenberg, in cui l’artista interviene con una pittura espressionista su un letto reale.
Un altro esempio possono essere gli artisti del Nouveau Réalisme francese, che privilegiano l’inserimento dei rifiuti della società dei consumi nelle proprie opere d’arte, così da conferire a questi residui nuova dignità e nuova vita; come succede nelle “compressioni” dello scultore marsigliese César, costituite prevalentemente da parti di carrozzerie di auto; oppure nei cosiddetti “decollages”, operazione di lacerazione di manifesti pubblicitari di Raymond Hains e di Mimmo Rotella.
Ecco, dunque, che la società dei consumi diventa il soggetto dell’arte e ciò contribuisce inconsciamente allo sviluppo del mercato dell’arte che in pochi anni diventa un sistema organizzato.
A ridosso delle rivoluzioni Sessantottine, alcuni artisti intuiscono il pericolo che questa vicinanza tra arte e commercio rappresenta; così, parallelamente alle poetiche dell’oggetto, si fanno strada una serie di atteggiamenti che si contrappongono in maniera sostanziale alla mercificazione dell’opera d’arte. Vengono privilegiati aspetti che rendono le opere “incomprabili”: il progetto e l’idea, nel caso della Conceptual Art; l’aspetto processuale e i materiali deperibili e organici, nel caso dell’Arte Povera e della Land Art e, infine, l’azione, nella fattispecie gli Happenings e la Performance Art.
Nonostante i tentativi di questi artisti di mettere in difficoltà il sistema dell’arte, quest’ultimo trova strategie per eludere questi sforzi eversivi, ad esempio, le principali gallerie d’arte, come le romane Attico di Fabio Sargentini e la Tartaruga di Plinio de Martiis, ospitano performance e azioni che vengono impresse su pellicole e successivamente messe in vendita.
Ecco che Maurizio Cattelan, l’ “enfant terrible” del sistema dell’arte, ironizza sul potere del mercato e sul ruolo del gallerista attraverso la sua provocante performance A perfect day (1999): per l’artista il giorno perfetto è quando si prende la sua rivincita “inchiodando” alla parete il gallerista.
Andrea Villa