Il leader della Lega, Matteo Salvini, ieri era nell’aula bunker del carcere Bicocca, a Catania, per il secondo atto del processo Gregoretti che lo vede accusato di sequestro di persona e abuso d’ufficio, nell’ambito della vicenda dello sbarco, nel luglio del 2019 quando era ministro dell’Interno e vice-premier, di 131 migranti che si trovavano a bordo della nave della Guardia Costiera italiana.
La Procura di Catania, guidata da Carmelo Zuccaro, aveva chiesto l’archiviazione del caso, ma per il Tribunale dei Ministri, Salvini aveva “consapevolmente” e “illegittimamente privato i migrati della loro libertà personale” in assenza di “ragioni tecniche ostative all’autorizzazione dello sbarco”.
Quando Salvini teneva in piedi il precedente Governo giallo-verde, nessuno si era azzardato a sollevare qualsiasi questione, ma appena l’ex ministro è uscito dalla maggioranza qualcuno ha pensato bene di far esplodere il caso. Una vera e propria bomba ad orologeria.
“Abbiamo salvato vite e protetto un Paese – replica Salvini – quello che non è accaduto dopo perché dopo di me ci sono stati morti annegati – inoltre il capo della Lega ha detto di essere -, curioso di sentire cosa diranno in aula Conte, Di Maio, Toninelli e gli altri ministri che con me condividevano questa linea”.
I migranti che erano a bordo della Gregoretti, alla fine, furono fatti sbarcare ad Augusta dopo un’attesa di alcuni giorni non prima di aver trovato un accordo tra il governo italiano e l’Ue sulla loro immediata ripartizione. “Il video in cui il premier Giuseppe Conte parla del governo e del ruolo dell’esecutivo nella decisione sugli sbarchi in Italia di migranti come idea condivisa è nella memoria difensiva già depositata agli atti del procedimento”, dice l’avvocato di Salvini, Giulia Bongiorno.
Lacunose le parole dell’ex ministro dei Trasporti, Toninelli, che dice di non ricordare molte cose dato che “è passato del tempo”, tra le quali la sua firma per il divieto di ingresso, di transito e sosta che poi venne annullato dal Tar. Non è ancora stato ascoltato invece il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che sarà sentito il prossimo 28 gennaio, alle 10.30, a Palazzo Chigi dal gup di Catania.
In molti, dentro e fuori dal Parlamento, sono convinti che quello contro Salvini non sia nient’altro che un processo farsa, mosso più da intenti politici che di giustizia.
Giustizia, una parola spesso abusata e travisata, ma che ogni tanto arriva, come per l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, imputato per la “Trattativa Stato-Mafia”, dopo ben 25 anni e 15 assoluzioni. Un record.
“In un paese civile nessun imputato dovrebbe aspettare un periodo così lungo per essere assolto. Venticinque anni sono davvero tanti, troppi. Il mio impegno nella vita politica è stato interrotto. Il tema della giustizia resta centrale nel nostro Paese”. Mannino parla comunque di ‘giudici liberi’. Resta però l’amarezza: “Da assolto ho già scontato una pena troppo lunga”, in carcere ci restò per nove mesi, altri tredici li trascorse agli arresti domiciliari e nessuno glieli restituirà.
I giudici d’appello del processo hanno scritto che: “Non è stato affatto dimostrato che Mannino fosse finito anch’egli nel mirino della mafia a causa di sue presunte ed indimostrate promesse non mantenute (addirittura, quella del buon esito del primo Maxiprocesso) ma, anzi, al contrario, è piuttosto emerso dalla sua sentenza assolutoria che costui fosse una vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a Cosa nostra quale esponente del governo del 1991, in cui era rientrato dal mese di febbraio di quello stesso anno”.
La divisione dei 3 poteri – esecutivo, legislativo e giudiziario -, dovrebbe essere fondamento imprescindibile di uno Stato, perché garantiscono che uno non prevalga sull’altro, ma purtroppo non è sempre così e spesso questi poteri vengono piegati a logiche egoiste e personali, che niente hanno a che fare con la giustizia.
E allora ecco un ministro a processo mentre agiva nel pieno dei poteri concessi dal suo ruolo, e un altro che deve aspettare 25 anni perché il suo nome smetta di essere accostato ad alcuni dei fatti più tristi e drammatici della storia repubblicana.
La storia, come più di qualcuno ha ripetuto in questi giorni, non la scrivono i giudici e non può essere riscritta da delle sentenze, a volte decisamente faziose. La verità dovrebbe essere non solo una valore, ma anche un diritto, altrimenti la giustizia smetterebbe di esistere.
L.M.