La crisi ha avuto un impatto immediato e dirompente anche sui flussi di commercio estero, con flessioni significative sia dell’import sia dell’export. Le misure di tutela del lavoro (quali la cassa integrazione) hanno attutito l’impatto della crisi sull’occupazione, ma le ore lavorate registrano una caduta cospicua in tutte le principali economie europee, più acuta in Italia e Spagna, meno intensa in Francia e Germania.
Già in rallentamento nel biennio 2018-2019, a seguito della pandemia le esportazioni italiane hanno subito una forte contrazione verso i mercati Ue e quelli extra Ue. Gli esportatori italiani hanno difeso la propria posizione sui mercati internazionali, grazie soprattutto alla capacità di competere con successo su prezzi e qualità dei beni.
Inoltre, l’impatto della crisi sui settori produttivi è stato estremamente eterogeneo, anche a causa della selettività dei provvedimenti di contenimento del contagio. Il calo del fatturato annuo risulta leggermente più accentuato per i servizi rispetto alla manifattura, ma è proprio nel terziario che la pandemia ha manifestato gli effetti più severi, in particolare nei comparti legati al turismo (diminuzione del 59,2% degli arrivi totali e del 74,7% di quelli dall’estero).
L’Istat sottolinea che a novembre 2020 quasi un terzo delle imprese considerava a rischio la propria sopravvivenza, oltre il 60% prevedeva ricavi in diminuzione e solo una su cinque riteneva di non avere subito conseguenze o di aver tratto beneficio dalla crisi.
Nonostante uno scenario in miglioramento, le prospettive di ripresa per il 2021 sono giudicate limitate: meno di una impresa su cinque prevede una normale prosecuzione dell’attività nella prima metà dell’anno. La crisi ha colpito soprattutto le imprese di piccola e piccolissima dimensione (risulta a rischio oltre un terzo di quelle con 3-9 addetti) e si è manifestata prevalentemente attraverso un crollo della domanda interna e della liquidità.
Alla crisi le imprese hanno reagito in modo molto differenziato. Circa il 30% è rimasto “spiazzato”, non avendo ancora attuato una strategia di difesa; un quarto ha reagito introducendo nuovi prodotti, diversificando i canali di vendita e di fornitura (anche attraverso il passaggio a servizi on line e di e-commerce) e intensificando le relazioni produttive con altre imprese. Un quinto ha riorganizzato profondamente processi e spazi di lavoro, orientandosi verso la transizione digitale o l’adozione di nuovi modelli di business. L’esigenza di distanziamento sociale e l’affermarsi dello smart working hanno infine favorito la diffusione di investimenti in server cloud e postazioni di lavoro virtuali e di quelli in software per la gestione condivisa di progetti.
Una “mappa della solidità” delle imprese indica che circa il 45% di esse è strutturalmente a rischio: esposte a una crisi esogena, subirebbero conseguenze tali da metterne a repentaglio l’operatività. Queste imprese sono numerose nei settori a basso contenuto tecnologico e di conoscenza. All’opposto, solo l’11% risulta solido, ma spiega quasi la metà dell’occupazione e oltre due terzi del valore aggiunto complessivi.
La crisi pandemica ha inciso anche sulle strategie di finanziamento delle imprese che, per fronteggiare la crisi di liquidità, hanno utilizzato un insieme ampio di strumenti nell’ambito dei quali il credito bancario ha rivestito un ruolo centrale. Inoltre l’insolvenza di molte imprese, che costituisce il principale rischio nei mesi a venire per il sistema produttivo italiano, aumenta l’esposizione del sistema bancario a possibili trasmissioni dello shock dal segmento non finanziario, implicando possibili tensioni sia sui bilanci delle banche, sia sui rapporti banca-impresa.
La crisi, infine, sottolinea il rapporto, ha prodotto divisioni sul territorio, anche a causa della applicazione delle misure di contenimento della pandemia su base regionale; la vulnerabilità del tessuto produttivo locale dipende sia dal grado di diffusione, al suo interno, dei settori maggiormente colpiti dalla crisi, sia da quanto esso è specializzato in tali attività.
Un indicatore del grado di “rischio combinato” (in termini di imprese e addetti) dei territori permette di evidenziare come la crisi tenda ad accentuare il divario tra le aree geografiche italiane: delle sei regioni il cui tessuto produttivo risulta ad alto rischio combinato, cinque appartengono al Mezzogiorno, (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania e Sardegna) e una al Centro Italia (Umbria). Le sei regioni classificabili a rischio basso si trovano invece tutte nell’Italia settentrionale (Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Provincia autonoma di Trento).
Oltre che tra Nord e Sud del Paese, le analisi evidenziano una dicotomia tra grandi centri urbani caratterizzati da una maggiore diversificazione delle attività economiche e le altre realtà locali, a specializzazione più elevata: indipendentemente dalla macro-ripartizione di appartenenza, le prime mostrano una fragilità di grado basso o medio-basso.