Nei giorni scorsi, si è cercato di fare il punto sulla situazione dell’avvio della stagione sciistica di questo inverno. L’Anef, l’associazione di categoria che riunisce i gestori degli impianti di risalita, già in difficoltà per la scure governativa che si è abbattuta sulle vacanze di Natale, comincia a guardare con una certa rassegnazione alla possibilità di un ulteriore slittamento dell’apertura degli impianti, verso la fine di gennaio.
Valeria Ghezzi, presidente trentina dell’associazione, ha fatto sapere che, l’attuale situazione sanitaria, ancora così gravemente compromessa, rende utopistica la sola idea di un’apertura al 7 gennaio, come previsto dal Dpcm e che, solo se caleranno i contagi, sarà possibile cominciare a pensare di riaprire, magari verso la fine di gennaio.
Ciò che conta per Ghezzi in questo momento è la definizione di un protocollo, in accordo con il Comitato Tecnico Scientifico. Poi rimane ancora in sospeso la questione dei Paesi confinanti, come Svizzera e Austria, perché il governo dovrà capire che non potremo rimanere l’unica area delle Alpi chiusa agli sciatori. I Francesi hanno già un obiettivo di apertura e soprattutto chiarezza sui ristori.
“Noi siamo disposti a rimboccarci le maniche e a farlo nel più breve tempo possibile, ma abbiamo bisogno di risposte, che continuano a non arrivare. Chiediamo solo certezze.”, ha ribadito Ghezzi. Ciò che probabilmente sfugge al governo, è che per l’Anef esiste una precisa “deadline”, che si colloca tra la fine di gennaio e i primissimi giorni di febbraio, oltre la quale, la stagione viene considerata persa, per gli alti costi del riavvio degli impianti. Nel frattempo, Federalberghi, che ha fatto un calcolo di quello che costerà la “zona rossa” natalizia, tra il primo dicembre e il 6 gennaio, a tutto il settore bellunese, parla di una cifra che si aggira attorno ai 60 milioni di euro.
“Una cifra impressionante”, come tiene a sottolineare Walter De Cassan, presidente provinciale della federazione, che sollecita un maggior impegno da parte del governo. Infatti, “a fronte di un’incidenza sul Pil nazionale del 13% risulterebbe che il Recovery fund, andrebbe a destinare al settore solo l’1,5% del totale, con una cifra attorno ai 3,5 miliardi, quando Francia e Germania hanno già stanziato rispettivamente 15 e 35 miliardi di euro”.
Bisogna che la Politica prenda coscienza di quello che sta accadendo lontano da Roma e provveda a porre rimedio, almeno attraverso gli aiuti economici.