Nel mondo della diplomazia bisogna saper cogliere le sfumature ed il significato che gesti e parole, all’apparenza privi di particolare importanza, invece ricoprono.
Così come nel gergo diplomatico una “discussione franca” può voler dire una totale disparità di vedute su di un determinato argomento, ritardare di oltre un giorno il messaggio di congratulazioni al neo presidente eletto degli Stati Uniti, può significare che in fondo, e neanche così tanto, si sarebbe preferito che a vincere fosse stato l’altro candidato.
Già dalla giornata di sabato, quando era ormai chiaro a tutti che Biden, nonostante le infantili proteste di Trump, avrebbe vinto le elezioni, entusiasti messaggi di auguri al candidato dem giungevano da tutto il mondo occidentale alleato di Washington. Tutti tranne Riyadh; che pure degli Stati Uniti è uno degli alleati storicamente più importanti. E che ha voluto aspettare ben domenica sera per congratularsi con Joe Biden; dimostrando, in modo inequivocabile per i motivi esposti all’inizio, che prima di decretare la sconfitta di Trump, era meglio esserne certi al 101%, e non al 99% come gran parte degli altri alleati ha fatto.
Tuttavia, mettendosi nei panni di re Salman e di suo figlio Mohammed, sarebbe ingiusto biasimarli; poiché Trump, per i Sauditi, è stato un autentico toccasana. E perderlo, come presidente, dispiacerà molto.
Lo straordinario attivismo mediorientale di “The Donald”, supportato dall’influente genero Jared Kushner, ha fatto sì che l’Arabia Saudita potesse continuare a combattere una guerra sporca contro lo Yemen nel totale silenzio dell’Occidente. Armata fino ai denti da Washington che, nel 2017 e in pieno conflitto, ha siglato un accordo coi reali sauditi per forniture di armi pari a 110 miliardi di dollari. Con tanti saluti al destino di centinaia di migliaia di civili yemeniti, sempre più vittime della guerra in corso.
Ancora, il silenzio americano, ordinato evidentemente dall’alto, ha provocato di riflesso il silenzio di tutto l’Occidente sulla vicenda Khashoggi, il giornalista torturato, ucciso e fatto a pezzi nel consolato saudita di Istanbul. Una vicenda atroce e grottesca, che se fosse accaduta in un Paese rivale avrebbe sicuramente provocato reazioni di tutt’altro tipo, rispetto al silenzio mediatico che l’ha contraddistinta.
Vi è poi l’accordo sul nucleare iraniano; il capolavoro diplomatico di Obama che, se non altro, aveva giustificato quel premio Nobel alla Pace concesso “sulla fiducia” all’ex presidente. Subito stracciato da Trump, ha di fatto riportato l’Iran nell’incubo delle sanzioni occidentali da cui stava con fatica riemergendo. Facendo un favore, di riflesso, ai suoi oppositori regionali, Arabia in primis.
Iran che per mano di Trump ha dovuto anche patire un assassinio gravissimo lo scorso gennaio, quando il generale Qassem Soleimani, artefice della sconfitta dell’ISIS in Siria ed Iraq, è stato fatto esplodere da un drone americano mentre si trovava a Baghdad. Portando un sorriso sul volto dei reali sauditi che mal sopportavano le vittoriose incursioni del generale fuori dai confini iraniani.
Confini iraniani che avrebbero dovuto essere difesi con ancor più attenzione, se l’Accordo Abraham a firma Trump e di cui avrebbe beneficiato enormemente anche l’Arabia Saudita, fosse andato definitivamente in porto. E sul quale ora vi è un grande punto di domanda.
Per concludere, si può esser certi che l’alleanza Washington-Riyadh sia così salda e forte che nessun presidente USA potrà mai intaccarla; ma è pur certo che uno come Trump, in Arabia, lo rimpiangeranno a lungo.
Federico Kapnist