Dopo un blocco durato nove mesi, il generale Haftar ha dato ordine di riaprire i pozzi petroliferi.
L’area sotto il controllo dell’ “uomo forte della Cirenaica” – l’Est della Libia, dove si trova la gran parte dei giacimenti di petrolio del Paese – aveva interrotto, ancora a gennaio, la produzione di greggio per assestare un duro colpo allo schieramento nemico capeggiato da al-Serraj. Il premier libico riconosciuto dalle Nazioni Unite ed al cui fianco è schierata, timidamente, anche l’Italia.
Serraj tiene infatti le redini della Banca Centrale Libica, con sede a Tripoli, la quale è l’unica istituzione ad incassare i proventi dell’esportazione del petrolio verso l’estero. Haftar, aveva quindi deciso di interrompere la produzione di greggio al fine di evitare che i versamenti di valuta andassero ad ingrassare il suo rivale.
Tra i due litiganti, il terzo moriva però di fame, più che godere. A pagare lo scotto di questo perdurante braccio di ferro, era infatti la popolazione; fiaccata da quasi dieci anni di guerra civile, alla presa con l’epidemia di coronavirus e senza nemmeno il sollievo di godere dei proventi della principale risorsa del Paese: il petrolio.
A Bengasi, principale città della Cirenaica, proteste di piazza avevano lanciato un messaggio forte e chiaro al governo di Haftar: cambiare rotta e intervenire a sostegno delle condizioni di vita della popolazione. Dopo che si era arrivati, in totale controsenso all’interno di un Paese traboccante di combustibili fossili, a registrare persino numerosi black-out di elettricità.
La speranza, è che l’accordo sui pozzi petroliferi possa inaugurare una fase distensiva nello scenario libico. Sempre più al centro di una guerra mondiale combattuta per procura, in cui alcuni tra i principali attori a livello internazionale – dalla Francia alla Russia, passando per Stati Uniti, Italia e Turchia – cercano di spartirsi il suo immenso patrimonio energetico e geo-strategico.
Federico Kapnist