Ebrahim Raisi è il nuovo presidente dell’Iran. Il candidato dell’ala conservatrice e tradizionalista, fedelissimo della guida spirituale del Paese, l’ayatollah Kamenei, ha vinto con il 61,95% dei consensi.
Dopo due mandati del riformista Rohani, l’Iran, seppur svogliatamente (alle elezioni si è recato a malapena un terzo degli aventi diritto) volta pagina. Nessuna recriminazione o protesta; lo stesso Rohani, insieme ai due principali sfidanti – il moderato Hemmati ed il pasdaran Rezaei – si sono immediatamente congratulati con Raisi.
Personaggio inviso all’Occidente, Raisi è stato sanzionato dagli USA nel 2019 per violazione dei diritti umani e per aver contribuito alla repressione del “Movimento Verde”. Che, nel 2009, aveva provato a scuotere il paese persiano dal rigore dei suoi vertici religiosi.
Critiche alla sua elezione sono arrivate da Israele e da Amnesty International; preoccupati per il ritorno di un Iran più aggressivo dentro e fuori i propri confini. Secondo diversi analisti, la sua elezione spingerà l’Iran ancor più verso due suoi antichi nemici diventati, oggi, alleati strategici: Russia e Cina.
Infine, ci si chiede quale effetto avrà la salita al potere di Raisi sugli accordi per il nucleare appena rilanciati dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden. La minaccia di un Iran più duro e meno accomodante, sarà utile per scendere a patti o, al contrario, sarà la scusa per confinarlo sempre più nel suo feudo centrasiatico?
Federico Kapnist