Dati il protrarsi del conflitto e l’inefficacia degli appelli provenienti dalle principali cancellerie internazionali, Vladimir Putin ha dovuto prendere in mano la situazione. Lo ha fatto a modo suo: convocando a Mosca nella giornata di ieri, venerdì 9 ottobre, i ministri degli Esteri di Armenia ed Azerbaijan per trovare urgentemente una soluzione che mettesse fine alle ostilità e riportasse la pace nella regione contesa del Nagorno-Karabakh.
Oltre sette ore di colloquio, con la regia della stella della diplomazia russa, Sergej Lavrov, hanno portato al raggiungimento di una tregua che entrerà in vigore oggi alle ore 12. Tregua i cui dettagli saranno da svelare nei prossimi giorni; ma che prevede, intanto, gesti dal grande valore simbolico quali lo scambio dei prigionieri e la restituzione, reciproca, dei cadaveri dei soldati caduti.
La pacificazione dell’area arriva in un momento in cui il conflitto stava deflagrando. Con delle possibili ripercussioni pericolosissime soprattutto per la Russia, il Paese che più aveva da perdere da questa nuova guerra. Scopriamo il perché.
Innanzitutto, in base al Trattato di Sicurezza Collettivo (CSTO) – un’Organizzazione di cui fanno parte Russia, Armenia, Kazakistan, Uzbekistan, Tajikistan e Kirghizistan – vi è l’impegno di sostenere militarmente uno stato membro qualora questo venisse attaccato da una forza esterna. Nel caso il conflitto dovesse deflagrare e l’Azerbaijan (non membro) attaccare finanche in territorio armeno, Mosca si sarebbe trovata nella spiacevolissima posizione di dover intervenire o, ancor peggio, astenersi da ogni azione. In quest’ultimo modo, minando però la sua credibilità di fronte agli alleati e rendendo, di fatto, nullo il Trattato che ricorda e simboleggia l’antica estensione del suo impero – zarista prima e comunista poi – nel Caucaso e nell’Asia centrale.
Una guerra in cui Mosca dovesse essere coinvolta, metterebbe poi inevitabilmente a repentaglio anche i rapporti che intrattiene con la Turchia, grande e dichiarata sostenitrice, in nome della “fratellanza turca”, dell’Azerbaijan. Erdogan e Putin, pur agli antipodi su alcune alleanze strategiche, perseguono comunque un disegno – dalla Libia all’Asia centrale, passando per Caucaso e Medio Oriente – che possa lasciar spazio ad entrambi per accrescere il prestigio e l’influenza dei propri Paesi. Soprattutto ora che l’America sta accelerando con il suo Accordo Abraham.
Per l’antica massima secondo cui “il nemico del mio nemico è mio amico”, Mosca e Ankara è meglio non si pestino troppo i piedi. E regolino le loro divergenze, locali, senza rompere quella che è di fatto un’alleanza in chiave geopolitica che, bene ricordarlo, permette loro, in ogni caso, di portare a casa continuamente risultati in politica estera. E la cui rottura avvantaggerebbe solo Washington e i suoi alleati.
Infine, per dirla con parole semplici, Mosca non vuole storie nel “suo” Caucaso. I rapporti con gli armeni sono particolarmente buoni ma quelli con gli azeri non sono da meno; e guai a guastarli. L’ultima cosa desiderabile, per i russi, è andare a farsi un nemico piccolo ma scomodo in quella che è una zona – il Caucaso – notoriamente ad alta tensione perenne. E che per essere pacificata, seppur in modo armato, è costata anni di guerra, fiumi di sangue e notevoli esborsi di denaro.
La matrice religiosa (cristiani gli armeni, musulmani gli azeri) che inevitabilmente si deve considerare in quello che sarebbe un conflitto più di natura geografica, costituisce per Mosca un pericolo in più. Guai se i musulmani della Cecenia e del Dagestan, pacificati con tremenda fatica, dovessero realizzare che la Madre Patria si va ad imbarcare in una guerra dal sapore religioso contro un Paese islamico.
Senza considerare che prima si allontana lo spettro di una nuova jihad, prima ci si sbarazzerà delle pericolose milizie islamiste inviate prontamente da Erdogan per dar manforte agli azeri. E che coi loro legami nel Caucaso musulmano, dentro e fuori i confini russi, costituiscono un’ulteriore minaccia di cui Mosca non ha alcun bisogno in questo momento.
Federico Kapnist