Correva il 2 ottobre 2018, quando Jamal Khassogi fu inquadrato per l’ultima volta da alcune telecamere, all’interno del consolato saudita di Istanbul, in Turchia.
Da quella sede di rappresentanza diplomatica, il giornalista e dissidente saudita non ne usci più, almeno da vivo. Le voci più insistenti raccontano che venne torturato, ucciso e fatto a pezzi; di fatto, del cadavere non se ne seppe mai più nulla e la vicenda sprofondò nel silenzio.
Ieri, una sentenza nella capitale saudita Ryad ha di fatto rivisto le condanne a morte emesse a suo tempo per i presunti responsabili dell’omicidio; condannando cinque persone, anonime, a 20 anni di prigione. La sentenza ha innescato polemiche sia tra la fidanzata del giornalista che tra le fila di alcune organizzazioni per i diritti umani; senza accendere, però, alcuna polemica a livello diplomatico.
Le cancellerie occidentali, affezionatissime partner commerciali della monarchia assoluta saudita, sembrano non voler guastare in alcun modo i loro rapporti commerciali con Ryad; chiudendo entrambi gli occhi su un omicidio barbaro e violento avvenuto all’interno di una sede diplomatica, diretta emanazione del potere statale.
Potere statale che in Arabia, nonostante il re sia formalmente Salman, è sempre di più nelle mani di suo figlio, Mohammed. Spregiudicato principe ed erede al trono che sta portando avanti una politica di epurazione all’interno della vastissima famiglia regnante – che conta, accertati, oltre 7000 membri – e pompose riforme nell’ambito del suo piano di rilancio del Regno, “Saudi Vision 2030”.
Un rapporto ONU del giugno 2019 indica proprio il principe ereditario, noto con l’acronimo MBS (Mohammed Bin Salman), come il mandante dell’omicidio. E con la sentenza di ieri, il sospetto che la verità sulla vicenda non verrà mai più a galla si fa sempre più concreto.
Federico Kapnist