La Nascita di Venere di Sandro Botticelli riprodotta in Le avventure del barone di Munchausen di Terry Gilliam, la Venere di Milo costruita da Bertolucci in The Dreamers o ancora a The Elephant Man di David Lynch di forte ascendenza baconiana. All’interno del vasto scenario cinematografico sono numerosi i registi che attingono dal repertorio della storia dell’arte, creando una forte relazione tra pittura, scultura e la settima arte per costruire scene di forte impatto visivo.
In questo panorama, il gallese Peter Greenaway (Newport, 5 aprile 1942), cineasta e artista poliedrico, rappresenta un caso a sé; nei suoi film i riferimenti artistici, oltre ad avere un’enorme valenza visiva e formale, si fondono in maniera intrinseca e indivisibile con la narrazione, garantendo così il movimento della pellicola.
Peter Greenaway, dopo gli anni d’esordio, caratterizzati da lavori di tendenza struttural-materialista, si muove verso un cinema spettacolare, intensamente scenografico, aprendosi sempre più all’inserimento di strutture narrative semplici, più vicine all’anti-realismo di Jorge Luis Borges piuttosto che in linea con il romanzo ottocentesco.
Ne Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante, è presente una narrazione, ma è l’elemento pittorico a ricoprire un ruolo di primaria importanza. I personaggi sono pedine, quello che interessa è l’aspetto carnale dei loro corpi. È evidente nella scena in cui Georgina e Michael, il suo colto e solitario amante, sono nudi in fuga dal Ladro: i loro corpi svestiti sono modellati sulla tradizione figurativa occidentale e sono un richiamo diretto all’affresco masaccesco della Cacciata dei progenitori dall’Eden (1424-1425) nella Cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine a Firenze.
La citazione non è solo formale: come i progenitori, i due innamorati sono in fuga dopo aver consumato il loro peccato e, come loro, ricurvi su stessi, si coprono cercano di mascherare la loro nudità e la loro vergogna.
La massima espressione dell’istanza visiva e del citazionismo pittorico avviene ne “Lo Zoo di Venere”. Il tema intorno al quale si sviluppa la pellicola è quello della vita, contrapposta inevitabilmente alla morte e alla sua manifestazione fisica: la decomposizione dei corpi.
Lo schianto di una Ford Mercury bianca apre la pellicola, ed è la causa della morte di due donne, le mogli dei due scienziati protagonisti, Oliver e Oswald. La perdita delle persone amate dà il via alla narrazione e all’ossessiva ricerca, da parte dei due vedovi, di trovare una spiegazione razionale alla morte. Gli etologi studiano il destino dei cadaveri: filmano il marcire di una mela, di alcuni gamberetti, di un coccodrillo, di un cigno, di una zebra, fino al deterioramento di un corpo umano. Ma, il finale lascia nello spettatore un senso di incompletezza: la scienza non è in grado di svelare l’insolubile.
Intanto Alba Bewick, unica superstite dell’incidente, entra a far parte della vita dei gemelli. La donna rappresenta anche il desiderio dell’inquietante chirurgo Hans van Meegeren, omonimo del famoso falsario Jan Vermeer, che la inserirà all’interno di riproduzioni viventi dei capolavori del pittore di Delft.
La composizione visiva della pellicola è ispirata alla vita e all’opera di Jan Vermeer (1632-1675), uno dei più grandi pittori della Golden Age olandese, che va a rappresentare uno dei principali motori della vicenda. Nelle pitture di genere dell’artista, i soggetti vivono in una metafisica sospensione, vengono colti nell’intimità di una stanza, durante scene di vita domestica. La sua capacità di calibrare luci e ombre deriva dall’applicazione del colore sulla tela a piccoli punti ravvicinati. Questa resa fotografica lo rende, in un certo senso, un lontano precursore del cinema, una sorta di proto-regista.
Peter Greenaway si cala nella maniera vermeeriana; nella pellicola ricrea le atmosfere sospese e lo stile luministico, tipici del pittore, inoltre, gli attori vengono organizzati nello spazio filmico in modo che occupino le medesime percentuali di spazio delle figure dipinte.
Se Jan Vermeer rappresenta un indiscusso protagonista visivo, e non solo, non poteva non esistere anche il suo falsario: l’abile Hans van Meegeren (1889-1947). Il lavoro del truffatore emerse dopo la Seconda guerra mondiale, quando un Vermeer, Cristo e l’adultera, fu trovato nella raccolta del generale nazista Hermann Goering, che lo aveva acquistato da Van Meegeren. Egli fu accusato e arrestato per aver tentato di vendere l’opera ad un nazista, ma confessò di aver realizzato lui stesso quel quadro. La sua abilità non stava solo nell’utilizzo della stessa tecnica pittorica, ma nell’invenzione di un inedito Vermeer religioso.
Il “falsario” del film, animato dalle medesime ossessioni pittoriche del reale van Meegeren, brama la riproduzione delle opere vermeeriane, ma, questa volta, a tre dimensioni. Impone alla sua assistente, Catharina Bolnes (che porta lo stesso nome della moglie del pittore olandese) di abbigliarsi come la protagonista della tela La fanciulla con cappello rosso (1665).
Lungo il corso del film sono presenti numerosi tableaux vivants creati per volere del chirurgo-falsario. Alba, come una cavia per esperimenti, è imprigionata all’interno della tela, La lezione di musica (1662), che vede una donna, di spalle, mentre suona la spinetta.
Greenaway crea lo scenario seicentesco con enorme attenzione all’autenticità filologica degli oggetti, come il vassoio e la brocca in ceramica smaltata, delle posture degli attori e dell’atmosfera; addirittura riesce a riprodurre la distanza che, nella tela, vi è tra Madame van Ees e l’occhio del pittore, riportandola tra la Alba alla spinetta e la macchina da presa.
Un altro tableau vivant è quello in cui Alba, per soddisfare l’ossessione di van Meegeren, diventa la protagonista de L’arte della Pittura (1666). In questo capolavoro il maestro di Delft ritrae se stesso di spalle nel suo atelier mentre ritrae una fanciulla. La stanza, scorciata in prospettiva, è immancabilmente illuminata da una finestra sulla sinistra, nascosta da un tendaggio di broccato che crea nell’osservatore la sensazione di essere ammessi a sbirciare un momento intimo. La medesima impressione, di spiare una conversazione privata, si ha nel frame del film, in cui Catharina Bolnes indossa solo il cappello rosso recuperato direttamente dalla tela vermeeriana, ed è coperta da un libro che nasconde il seno e, nella mano destra, tiene una tromba, proprio come nel dipinto.
Lo stile vermeeriano, benché maniacalmente dominante e onnipresente, non è il solo che influenza la costruzione delle scene di Lo Zoo di Venere. Nelle sequenze che vedono “la morte al lavoro” nei corpi vegetali e animali si nota una citazione visuale dell’impronta di Francis Bacon. Gli organismi sono inseriti in teche metalliche proprio come i soggetti baconiani sono confinati all’interno di una claustrofobica cornice scatolare. Un esempio è il corpo distorto del cigno in putrefazione, privo di simmetria, proprio come nei dipinti del pittore irlandese.
In linea con l’intento di creare un cinema di immagini di forte potenza visiva, contro un cinema prettamente narrativo, Peter Greenaway fa sì che ne Lo Zoo di Venere sia la forma, e quindi le immagini, a determinare i contenuti: la struttura narrativa è modellata sull’esperienza artistica del pittore di Delft, il cui immaginario rappresenta la forza generatrice di immagini.
Andrea Villa