La luce ci rivela le cose, gli oggetti e tutto ciò che ci circonda. È sempre la luce che rende percepibili e modella le architetture, le sculture e le immagini pittoriche; il ricorso all’utilizzo della luce, con gli esiti più disparati, nel campo artistico è imprescindibile. Nelle architetture tardogotiche i rosoni e le grandi vetrate colorate permettono alla luce di filtrare, a rappresentare la presenza divina nel mondo terreno. Nel Seicento la rivoluzione caravaggesca fa sì che le figure, colpite dalla luce, fuoriescano dallo sfondo in ombra.
In epoca Barocca la rappresentazione della luce è centrale, basti pensare alla celeberrima “Estasi di Santa Teresa d’Avila” (1645-1652) del Bernini: la luce penetra da una piccola finestra che l’artista ha fatto aprire appositamente nell’abside, inoltre la luce prende forma grazie alla creazione di una cascata di raggi dorati.
All’inizio del secolo scorso, grazie al progredire dello sviluppo tecnologico, nel mondo artistico ci si è mossi verso un abbandono della luce naturale per ricorrere sempre più all’uso di quella artificiale. Anche in questa direzione è Picasso che segna un’importante punto di rottura: nel 1949 nel suo studio parigino, l’artista, con una torcia in mano, traccia linee e forme immaginarie nello spazio buio, mentre il fotografo Gjon Mili, lo immortala con il flash laterale.
Il risultato? Un’opera d’arte di luce, un’opera d’arte effimera, ma che vive tuttora grazie a quegli scatti. Nel caso dei suddetti “Disegni di luce” di Pablo Picasso, la luce viene manipolata dalla mano dell’artista, cessa di essere uno strumento utile, un mezzo ausiliario alla definizione di immagini pittoriche e di superfici scultoree: la luce diventa essa stessa la protagonista indiscussa dell’opera d’arte.
Questo nuovo ruolo che assume la luce è evidente nei lavori di Dan Flavin (1933-1996). “È quello che è e non è nient’altro”: sono le parole dell’artista americano, pioniere della Minimal Art, Dan Flavin, in riferimento alle sue opere: non hanno alcun valore trascendentale e simbolico, è solo luce.
Dan Flavin si avvicina all’arte durante il servizio militare in Corea. Nel 1959 prosegue la formazione artistica alla Columbia University. Nei primi anni ’60, Flavin lavora come guardia all’American Museum of Natural History di New York e qui inizia a realizzare gli schizzi per le sue successive sculture: quadrati monocromi in legno e masonite a cui vengono applicate comuni lampadine a incandescenza. Si tratta della serie “Icons”, che rappresenta il primo approccio di Flavin alle luci elettriche.
Nel ‘63 rimuove il supporto rettangolare dalle sculture e la sua sperimentazione si focalizza sulle lampade.
Da questo momento Flavin realizza installazioni e sculture monumentali di tubi al neon fluorescenti di produzione industriale; tubi che per l’artista non sono altro che un elemento modulare da articolare in serie potenzialmente infinite.
In linea con i principi della Minimal Art, che si fa portatrice di un ritorno alla struttura primaria della realtà eliminando i dettagli superflui, le opere di Flavin non sono altro che linee luminose e il loro significato è solo nel loro essere tali.
La realizzazione di queste installazioni comporta uno studio accurato del riflesso della luce sulle pareti. Sono opere che entrano in rapporto con lo spazio fisico circostante, mettono in moto una metamorfosi dell’ambiente attraverso la luce di vari colori, che -diversamente dall’agire degli altri artisti Minimal- lavora sui sensi e sulla sensibilità del fruitore per trasmette emozioni forti.
La trasformazione dello spazio riguarda a volte la percezione dello sfondamento dei muri o, al contrario, la creazione di muri inesistenti; sono spazi immersivi in cui il visitatore viene sopraffatto dalla luce vibrante. Come avviene nelle numerose opere site-specific di Dan Flavin a Villa Letizia a Varese, donata al FAI dal conte Giuseppe Panza di Biumo (1923-2010).
Nella fabbrica di Varese è conservata la più grande collezione di Dan Flavin esistente e, nonostante l’artista e il conte di Biumo, appassionato collezionista, non fossero in ottimi rapporti, quest’ultimo era il suo più grande collezionista e sostenitore.
“Tutti si mettevano a ridere quando vedevano i tubi fluorescenti di Dan Flavin, dicevano che fare arte con i tubi fluorescenti che sono un prodotto che si compra in un negozio per elettricisti, era una cosa stupida. Invece Dan Flavin è stato un grande artista e l’ho capito subito che lo era. Bisogna saperlo esporre, non si può mettere un Flavin in una stanza con altre cose, ha bisogno di essere solo, in una stanza bianca, allora la luce diventa la sua opera d’arte. […] E questo spazio diventa animato, diventa vita, uno spazio dove si entra e si vive”. Ecco come Giuseppe Panza, in alcune interviste racconta l’arte di Flavin.
Anche per il fiorentino Maurizio Nannucci (1939) la luce al neon rappresenta il mezzo espressivo privilegiato. Formatosi all’Accademia di Belle Arti a Firenze e a Berlino, lavora per anni con gruppi di teatro sperimentale come scenografo. Nei primi anni ’60 inizia ad esplorare le relazioni tra arte e linguaggio e si interessa alla poesia visuale.
I primi testi costituiti da tubi al neon risalgono al ‘67, realizzati in occasione della sua prima personale al Centro Arte Viva di Trieste. Sono frasi sintetiche che, grazie all’utilizzo della luce e dei colori, coinvolgono e raggiungono il fruitore nel profondo, all’insegna della continua riflessione sul rapporto che vi è tra significato e significante, tra dimensione visiva e semantica. L’illuminazione permette di intensificare la percezione visiva e -come per Flavin- stimolare nuove interpretazioni dello spazio e del linguaggio.
Il connubio neon, cromatismi e linguaggio risulta di importante impatto visivo, ma superato questo primo livello estetico si giunge ad una dimensione concettuale. Le frasi esistenziali, la contrapposizione di affermazioni e negazioni, spingono il lettore ad intraprendere esercizi mentali interminabili e a riflettere sulla condizione dell’uomo nella società contemporanea.
Se per Dan Flavin la luce è l’opera e l’opera è la luce, l’arte di Nannucci è costituita da parole sospese che rappresentano per lo spettatore un punto di partenza per riflessioni su tematiche universali e per orientare le proprie azioni.
Andrea Villa