Dopo Barack Obama, un altro premio Nobel per la Pace come il premier etiope Abiy Ahmed – insignito dell’ambito riconoscimento l’anno scorso – sembra non disdegnare l’uso della forza per dirimere questioni di carattere geopolitico.
Pomo della discordia è ancora una volta la regione settentrionale dell’Etiopia, il Tigray. Che, per mano del Fronte della Liberazione del Popolo (TPLF), nelle scorse settimane ha avviato una serie di attacchi nei confronti delle forze armate nazionali con lo scopo di arrivare ad una secessione da Addis Abeba. Alla base, l’abbandono del partito del Tigray – minoranza etnica ma storicamente dal grande peso socio-economico – dell’alleanza di governo guidata da Abiy. Frutto, secondo le autorità di Makele (capitale del Tigray), di politiche repressive da parte del governo centrale nei confronti di alcuni suoi leader rappresentativi. E di cui il premio Nobel sarebbe il principale responsabile.
Da inizio novembre, le forze secessioniste del Tigray, numerose e bene armate, hanno compiuto diversi attacchi contro l’esercito etiope. Ma è stato in particolare quello del 4 novembre scorso – contro una caserma, in cui sono stati uccisi più di 50 soldati – a segnare l’inizio della rappresaglia da parte del governo centrale.
Due settimane di guerriglia, con atrocità denunciate da ambo le parti, in cui le forze secessioniste sono state sconfitte in alcune battaglie dopo qualche successo iniziale. A pagare lo scotto della nuova guerra, è ovviamente la popolazione civile; trovatasi suo malgrado a dover abbandonare la regione contesa e a riversarsi nel vicino Sudan, uno dei Paesi più poveri al mondo e che non può certo garantire un dignitoso sostentamento agli sfollati.
L’ex “Impero d’Etiopia” italiano, stretto tra le tensioni di Paesi ad alto rischio geopolitico come Somalia, Gibuti e Sudan, è potenzialmente una polveriera. E la quantità delle forze attualmente in campo, insieme al pericolo che i combattimenti si estendano anche nei Paesi limitrofi – Sudan ed Eritrea principalmente – ha già spinto la comunità internazionale a chiedere di porre un immediato freno alle ostilità e di perseguire una soluzione politica. Appello che finora, però, è rimasto inascoltato.
Federico Kapnist